Nel 1976 si svolge a Milano un’esposizione mondiale di Filatelia, celebrata con alcuni francobolli. Fra questi ve n’è uno che raffigura una bollatrice. Molto appropriato, visto che una volta introdotto il francobollo, nel lontano Ottocento, bisognava pure escogitare un modo per annullarlo, timbrarlo, dichiarare la data in cui ciò avveniva (che equivaleva a quella di spedizione). Non solo. Bisognava anche trovare un modo per timbrare i francobolli in modo sempre più rapido. Maggiore il numero di spedizioni, maggiore deve essere la velocità di timbratura.
Finché devi timbrare poche lettere o cartoline, una persona dotata di un normale timbro, va anche bene. Ma quando in un ufficio postale ce ne sono da timbrare a centinaia? E in un ufficio di smistamento, addirittura migliaia? O decine di migliaia? Che fare?
In Italia dal 1876 al 1910 circa si ricorre alla bollatrice prodotta dalla pregiata ditta “Officine Enrico Dani” di Firenze. È un piccolo capolavoro di ingegneria. Intanto è autoinchiostrante. Al di sotto del meccanismo che appone il timbro è collocato un piccolo rullo imbevuto di inchiostro. Quando si aziona, a mano, la leva che porta il timbro sulla busta, questo rullo si ritrae per poi tornare in posizione quando la leva si solleva, così da imbevere di inchiostro il timbro vero e proprio, pronto all’istante per una nuova bollatura. Un altro meccanismo alimenta, con un flusso delicato e costante, il rullo inchiostrante: sembra banale, ma da questo meccanismo dipende la qualità del timbro apposto, deve essere nitido e perfettamente leggibile.
Una versione più sofisticata permette di azionare la leva del timbro con dei pedali, consentendo così all’operatore di avere le mani libere, per passare più velocemente da una lettera all’altra.
Questo il punto di partenza, ma la tecnologia si evolve e man mano che il numero dei pezzi da timbrare aumenta, si affacciano sul mercato bollatrici sempre più innovative. Una delle più affermate è la bollatrice “Flier” prodotta dal 1895 dalla International “Postal Supply Company” di New York. Gli esordi non sono entusiasmanti, tanto è vero che le Poste inglesi e le Poste tedesche, dopo un periodo di sperimentazione, decidono di lasciar perdere. Perseverano, invece, le Poste francesi che, dopo avervi fatto apportare modifiche e migliorie, decidono di utilizzarla stabilmente e ne comprano 62 esemplari. Così anche le Regie Poste per i centri di lavorazione postale di nove importanti città. Con questa diavoleria si possono timbrare, man mano che si evolve, fino a 18.000, 20.00, anche 30.000 lettere all’ora. Con una classica bollatrice manuale, invece, un bravo impiegato ne può bollare 2.000, 3.00 in un’ora ed è per questo che negli anni successivi i centri postali dei capoluoghi di regione vengono dotati di una bollatrice Flier e, negli anni Trenta, anche i centri ubicati in località con grande afflusso di turisti, come Riccione e Formia. La Flier, introdotta – lo ricordiamo - nel 1910, viene utilizzata fino alla fine degli anni Sessanta, non più prodotta negli Stati Uniti, ma direttamente in Italia e dotata di un motore elettrico Magneti (poi Magneti Marelli). Nel secondo dopoguerra le Officine Meccaniche di Taranto (OMT) riconvertono la produzione navale, acquisiscono dalla Postal Supply Company la licenza per produrre la Flier e ne propongono diverse versioni, da quella più costosa con una solida base in ghisa a quella più economica in cui l’apparato è sostenuto da “esili gambette”. Altre bollatrici di lunga durata sono quelle prodotte, già nel 1910, dalla statunitense Pitney Bowes che rifornisce le Poste italiane negli anni Sessanta. La OMT, intanto, introduce anche bollatrici elettriche molto compatte, “da scrivania” usate ancora negli anni Novanta del secolo scorso.
Nella ricerca della bollatrice perfetta, agli inizi del secolo scorso sarà un dirigente delle Poste milanesi a innovare la bollatrice delle Officine Enrico Dani di Firenze. Lo racconteremo nel prossimo articolo.
Leggi anche La bollatrice del cavalier Sessini. Elettrica. Nel 1896.
archiviostorico@posteitaliane.it
Finché devi timbrare poche lettere o cartoline, una persona dotata di un normale timbro, va anche bene. Ma quando in un ufficio postale ce ne sono da timbrare a centinaia? E in un ufficio di smistamento, addirittura migliaia? O decine di migliaia? Che fare?
In Italia dal 1876 al 1910 circa si ricorre alla bollatrice prodotta dalla pregiata ditta “Officine Enrico Dani” di Firenze. È un piccolo capolavoro di ingegneria. Intanto è autoinchiostrante. Al di sotto del meccanismo che appone il timbro è collocato un piccolo rullo imbevuto di inchiostro. Quando si aziona, a mano, la leva che porta il timbro sulla busta, questo rullo si ritrae per poi tornare in posizione quando la leva si solleva, così da imbevere di inchiostro il timbro vero e proprio, pronto all’istante per una nuova bollatura. Un altro meccanismo alimenta, con un flusso delicato e costante, il rullo inchiostrante: sembra banale, ma da questo meccanismo dipende la qualità del timbro apposto, deve essere nitido e perfettamente leggibile.
Una versione più sofisticata permette di azionare la leva del timbro con dei pedali, consentendo così all’operatore di avere le mani libere, per passare più velocemente da una lettera all’altra.
Questo il punto di partenza, ma la tecnologia si evolve e man mano che il numero dei pezzi da timbrare aumenta, si affacciano sul mercato bollatrici sempre più innovative. Una delle più affermate è la bollatrice “Flier” prodotta dal 1895 dalla International “Postal Supply Company” di New York. Gli esordi non sono entusiasmanti, tanto è vero che le Poste inglesi e le Poste tedesche, dopo un periodo di sperimentazione, decidono di lasciar perdere. Perseverano, invece, le Poste francesi che, dopo avervi fatto apportare modifiche e migliorie, decidono di utilizzarla stabilmente e ne comprano 62 esemplari. Così anche le Regie Poste per i centri di lavorazione postale di nove importanti città. Con questa diavoleria si possono timbrare, man mano che si evolve, fino a 18.000, 20.00, anche 30.000 lettere all’ora. Con una classica bollatrice manuale, invece, un bravo impiegato ne può bollare 2.000, 3.00 in un’ora ed è per questo che negli anni successivi i centri postali dei capoluoghi di regione vengono dotati di una bollatrice Flier e, negli anni Trenta, anche i centri ubicati in località con grande afflusso di turisti, come Riccione e Formia. La Flier, introdotta – lo ricordiamo - nel 1910, viene utilizzata fino alla fine degli anni Sessanta, non più prodotta negli Stati Uniti, ma direttamente in Italia e dotata di un motore elettrico Magneti (poi Magneti Marelli). Nel secondo dopoguerra le Officine Meccaniche di Taranto (OMT) riconvertono la produzione navale, acquisiscono dalla Postal Supply Company la licenza per produrre la Flier e ne propongono diverse versioni, da quella più costosa con una solida base in ghisa a quella più economica in cui l’apparato è sostenuto da “esili gambette”. Altre bollatrici di lunga durata sono quelle prodotte, già nel 1910, dalla statunitense Pitney Bowes che rifornisce le Poste italiane negli anni Sessanta. La OMT, intanto, introduce anche bollatrici elettriche molto compatte, “da scrivania” usate ancora negli anni Novanta del secolo scorso.
Nella ricerca della bollatrice perfetta, agli inizi del secolo scorso sarà un dirigente delle Poste milanesi a innovare la bollatrice delle Officine Enrico Dani di Firenze. Lo racconteremo nel prossimo articolo.
Leggi anche La bollatrice del cavalier Sessini. Elettrica. Nel 1896.
archiviostorico@posteitaliane.it