Oggetti di desiderio, certo, perché utilissime per la contabilità e quindi ricercatissime. Ad ogni costo. Dagli anni Venti addizionatrici e calcolatrici sono una delle nuove frontiere della tecnologia. Non c’è da stupirsi che le cronache dei giornali dedicassero più di un semplice trafiletto ai furti di cui erano oggetto. Anche nel pieno della Seconda guerra mondiale, come racconta il Corriere della Sera in un articolo sul furto di una calcolatrice “Inzadi”, sottratta la notte del 24 ottobre 1943, dai magazzini dello stabilimento “Italcalco” (via Ripamonti 115, Milano).
Una calcolatrice non dissimile da quella esposta nel Palazzo delle Poste di piazza San Silvestro, a Roma, utilizzata negli anni Trenta per la redazione di bilanci, l’allibramento dei conti correnti e la contabilità degli assegni postali.
Alla fine degli anni Venti i funzionari delle Regie Poste avevano notato che la meccanizzazione del lavoro era stata, fino ad allora, quasi del tutto trascurata dall’Amministrazione P. T. Non del tutto vero, visto che proprio nel 1925, erano state acquistate 60 macchine per il calcolo, spendendo più di 350.000 lire. Si trattava, per la precisione, di “addizionatrici”, macchine che, come dice il nome, non eseguivano tutte le operazioni, ma soltanto addizioni e sottrazioni. Fra quelle prodotte in Italia la più diffusa era un modello “a tastiera estesa”, della Sozzi-Inzadi (1935), dai nomi dei due soci. Soci solo per un breve periodo perché nel 1938, Giuseppe Inzadi si mette in proprio, costituisce la GIM (Giuseppe Inzadi, Milano) e inizia produrre addizionatrici “a tastiera ridotta” che avranno un buon successo commerciale anche nel dopoguerra.
L’introduzione delle addizionatrici, all’epoca, non avviene dall’oggi al domani. Le prime macchine vengono adottate alla fine del 1918, ma è una decina di anni dopo che se ne considera l’applicazione in modo scientifico, valutandone costi e benefici, resa oraria, nuova organizzazione del lavoro. Nella Relazione di bilancio del 1928, conservata all’Archivio Storico di Poste Italiane, leggiamo: “Occorse (…) uno studio preliminare, per adattare i congegni contabili alle esigenze della meccanizzazione (…) I lavori di controllo dei documenti di deposito e di rimborso (vaglia e cedole), nonché quelli del riepilogo mensile delle operazioni giornalmente partecipate dagli uffici, si prestano magnificamente alla meccanizzazione, con notevole vantaggio, per la precisione e chiarezza del lavoro e pel costo sensibilmente minore di quello del lavoro manuale. Si è constatato che la resa oraria per impiegato, attualmente di 132, si eleverebbe a 175 operazioni. Inoltre – prosegue la Relazione Finanziaria 1928-1929 - un impiegato nelle 7 ore di lavoro può contabilizzare da 800 a 1.200 bollettini; mentre, se dovesse compiere le operazioni a mano, non potrebbe superare le 500 operazioni”.
L’utilizzo delle addizionatrici e poi delle calcolatrici comporta anche la centralizzazione delle operazioni contabili, per poter contenere il numero delle macchine da acquistare - che proprio economiche non sono. Nel 1914 un’addizionatrice costa intorno alle 900 lire; nel 1932 ne costa quasi 5.000 lire. Nonostante l’inflazione e la svalutazione della lira, intercorsa nell’intervallo, non è differenza da poco.
Per ladri professionali o improvvisati le calcolatrici sono l’ideale: piccole, maneggevoli, leggere, si possono portar via facilmente, senza dare troppo nell’occhio e rivendere a buon prezzo. Ma agli autori del furto del 1943 dallo stabilimento “Italcalco” andò male. Avevano fatto man bassa di tutto, compreso un furgoncino, alcune macchine per scrivere e tredici pacchetti di sigarette trovati lì, marca “Serraglio” e “AOI”. Prima ancora di piazzare la merce rubata, si erano concessi il lusso di regalare a conoscenti qualcheduna delle sigarette rubate. Si venne a sapere di tanta generosità, vennero identificati, arrestati e l’addizionatrice restituita al proprietario.
Una calcolatrice non dissimile da quella esposta nel Palazzo delle Poste di piazza San Silvestro, a Roma, utilizzata negli anni Trenta per la redazione di bilanci, l’allibramento dei conti correnti e la contabilità degli assegni postali.
Alla fine degli anni Venti i funzionari delle Regie Poste avevano notato che la meccanizzazione del lavoro era stata, fino ad allora, quasi del tutto trascurata dall’Amministrazione P. T. Non del tutto vero, visto che proprio nel 1925, erano state acquistate 60 macchine per il calcolo, spendendo più di 350.000 lire. Si trattava, per la precisione, di “addizionatrici”, macchine che, come dice il nome, non eseguivano tutte le operazioni, ma soltanto addizioni e sottrazioni. Fra quelle prodotte in Italia la più diffusa era un modello “a tastiera estesa”, della Sozzi-Inzadi (1935), dai nomi dei due soci. Soci solo per un breve periodo perché nel 1938, Giuseppe Inzadi si mette in proprio, costituisce la GIM (Giuseppe Inzadi, Milano) e inizia produrre addizionatrici “a tastiera ridotta” che avranno un buon successo commerciale anche nel dopoguerra.
L’introduzione delle addizionatrici, all’epoca, non avviene dall’oggi al domani. Le prime macchine vengono adottate alla fine del 1918, ma è una decina di anni dopo che se ne considera l’applicazione in modo scientifico, valutandone costi e benefici, resa oraria, nuova organizzazione del lavoro. Nella Relazione di bilancio del 1928, conservata all’Archivio Storico di Poste Italiane, leggiamo: “Occorse (…) uno studio preliminare, per adattare i congegni contabili alle esigenze della meccanizzazione (…) I lavori di controllo dei documenti di deposito e di rimborso (vaglia e cedole), nonché quelli del riepilogo mensile delle operazioni giornalmente partecipate dagli uffici, si prestano magnificamente alla meccanizzazione, con notevole vantaggio, per la precisione e chiarezza del lavoro e pel costo sensibilmente minore di quello del lavoro manuale. Si è constatato che la resa oraria per impiegato, attualmente di 132, si eleverebbe a 175 operazioni. Inoltre – prosegue la Relazione Finanziaria 1928-1929 - un impiegato nelle 7 ore di lavoro può contabilizzare da 800 a 1.200 bollettini; mentre, se dovesse compiere le operazioni a mano, non potrebbe superare le 500 operazioni”.
L’utilizzo delle addizionatrici e poi delle calcolatrici comporta anche la centralizzazione delle operazioni contabili, per poter contenere il numero delle macchine da acquistare - che proprio economiche non sono. Nel 1914 un’addizionatrice costa intorno alle 900 lire; nel 1932 ne costa quasi 5.000 lire. Nonostante l’inflazione e la svalutazione della lira, intercorsa nell’intervallo, non è differenza da poco.
Per ladri professionali o improvvisati le calcolatrici sono l’ideale: piccole, maneggevoli, leggere, si possono portar via facilmente, senza dare troppo nell’occhio e rivendere a buon prezzo. Ma agli autori del furto del 1943 dallo stabilimento “Italcalco” andò male. Avevano fatto man bassa di tutto, compreso un furgoncino, alcune macchine per scrivere e tredici pacchetti di sigarette trovati lì, marca “Serraglio” e “AOI”. Prima ancora di piazzare la merce rubata, si erano concessi il lusso di regalare a conoscenti qualcheduna delle sigarette rubate. Si venne a sapere di tanta generosità, vennero identificati, arrestati e l’addizionatrice restituita al proprietario.